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FESTIVAL DELL’ORIENTE: UN MODO DIVERSO PER SCOPRIRE UN’ALTRA PARTE DEL MONDO

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Una decina di giorni fa, il 24 marzo, si è conclusa un’altra edizione del Festival dell’Oriente, un modo diverso per scoprire un’altra parte del mondo.

Perché parlo di “mondo”?
Quando si parla d’Oriente si parla davvero di un mondo a parte, spesso pervaso da un alone intrigante e misterioso.

Fin da bambina sono sempre stata molto affascinata dalle culture orientali, quelle del Medio ed Estremo Oriente.
Sono talmente incantata e catturata da quelle culture così lontane che a volte penso di avere avuto delle vite precedenti e di essere vissuta in uno di quei Paesi.
Sembra assurdo, me ne rendo conto, ma faccio fatica a pensare ad altri motivi plausibili!

Medio ed Estremo Oriente

Prese le dovute distanze da questioni di carattere politico o religioso, mi preme ricordare brevemente quali zone geografiche sono interessate quando ci si riferisce a quei luoghi.

Il Medio Oriente comprende i paesi africani e asiatici che si affacciano sul Mediterraneo orientale e sul Golfo Persico.
L’Estremo Oriente comprende i territori del sud-est asiatico, la Cina, le due Coree, la Mongolia, l’arcipelago giapponese e la parte più orientale della Siberia.

Immaginatevi tutti questi paesi, provate a sentirne i profumi, vederne i colori e gustarne i sapori: potrete avere una vaga idea di ciò che i miei concittadini vivono durante questo periodo.

 

 

Si tratta di un evento unico nel suo genere, un microcosmo dove trovare stand con prodotti tipici, ma anche assistere a spettacoli di folklore, ad esempio.

Non solo: durante la manifestazione si assiste anche a concerti, cerimonie tradizionali ed esibizioni che mostrano il lato positivo della condivisione fra culture.

Un melting-pot che ti porta a fare un giro virtuale tra alcune meraviglie del nostro pianeta, un’esperienza più che appagante.

 

 

C’è tutto un mondo. . .

Come nelle scorse edizioni, anche quest’anno il Festival dell’Oriente si è svolto per ben due lunghi fine settimana, dal venerdì alla domenica, così da dare maggiore possibilità a tutti di partecipare.

La sede è stata il polo fieristico del Lingotto, alla periferia di Torino.
La manifestazione si è svolta precisamente all’Oval, un palazzetto costruito in occasione dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006.

Sono molti i paesi partecipanti al festival: India, Cina, Giappone, Filippine, Taiwan, Mongolia, Corea del Sud e del Nord, Thailandia, Nepal, solo per citarne alcuni.

Ogni giorno della manifestazione, il pubblico ha potuto assistere a molte performance: Danze del Ventre, Danze Tibetane, i canti degli Hare Krishna, ambientazioni dei paesi in rappresentanza.

 

 

Oltre agli spettacoli, si potevano seguire dei seminari di scrittura e pittura orientale; era davvero un modo diverso per scoprire un’altra parte del mondo.

Le mie esperienze in questo “mondo”

Sono già diversi anni che seguo questo evento: ogni anno riesco a meravigliarmi e a portare a casa con me qualcosa di bello (parlo più che altro di emozioni o di “lezioni”).

Ricordo che due anni fa partecipai a una dimostrazione di Sumi-e, una forma d’arte giapponese che ha affinità con la pratica dello Zen. La parola “sumi” significa inchiostro nero, mentre “e” significa pittura; questa particolare tecnica venne introdotta in Giappone dai monaci Zen.

Il metodo presenta affinità con questo stato dello spirito zen perché nelle pitture «l’espressione del reale viene ridotta alla sua forma pura, spoglia».
Prima di disegnare, ti viene chiesto di liberare la mente (non è facile, ma aiuta per una migliore riuscita), poi bisogna fare un profondo respiro e, mentre si espira, si prova a dipingere.
Questi gesti, svolti seguendo la sequenza descritta, sono importanti per far sì che l’energia fluisca liberamente.

 

 

Quest’anno, invece, ho beneficiato della consulenza di un’esperta di medicina olistica e fitoterapia.
Dopo avermi fatto accomodare su una sedia accanto a lei, mi ha raccontato di cosa si occupava e poi mi ha dato un “assaggio” della terapia.
Mi ha fatto poggiare la mano destra su dei flaconcini contenenti degli estratti di erbe spontanee che crescono qui in Italia.

La mano sinistra, invece, era nelle sue, pollice e medio chiusi: ogni volta che toccavo le fiale lei cercava di aprirmi le due dita e misurava la forza che opponevo.
Una volta toccati tutti i flaconcini, ne ha selezionati quattro / cinque, mi ha spiegato le “corrispondenze” e il motivo per cui potesse essere utile fare quel tipo di terapia.

Mi sono piaciuti entrambi gli “scambi” e ho trovato queste esperienze molto interessanti.

 

 

Se ci si pensa bene, questo può essere un modo diverso per scoprire un’altra parte del mondo che non necessita di percorrere grandi distanze. . . anche se il modo migliore per conoscere l’altro resta quello di viaggiare!

Photo credits: Veronica Curvietto

2 commenti

  • Alessandro Gaidano

    Ciao di nuovo Veronica …

    che dire … il fascino dell’Oriente è decisamente seducente e ricco di contenuti !

    A partire dal punto di vista strettamente storico , ecco che mi viene in mente quando durante le scuole medie ed ancor prima nelle elementari , si partiva a studiare le antiche civiltà che si affacciavano sul “mare nostrum” , culla delle varie cività che si sono succedute nei secoli, a partire dai fenici , dagli assiri , dai babilonesi , dall’antico Egitto , dalla Grecia per approdare alla nascita dell’Impero Romano … ma quasi diementicandosi che poco piu’ a est nascevano e si sviluppavano cività altreattanto affascinati e durature , come le dinastie cinesi o mongole o giapponesi …
    Meno male che almeno non si saltava il periodo del grande Marco Polo che con il padre Niccolò e lo zio Matteo, viaggiò attraverso l’Asia, lungo la Via della seta, sino alla Cina (Catai) negli anni 1271-1295 , fino ad approdare alla corte del Khan Kubilai , nipote del grande Gengis Khan , dove divenne ambasciatore e suo consigliere personale.

    A lui si spalancò un mondo pieno di sorprese di una civiltà estremamente avanzata e raffinata che rese manifesta al mondo intero grazie al suo manoscritto “Il Milione ” , una vera e propria enciclopedia geografica che riunisce le conoscenze essenziali disponibili in Europa alla fine del XIII secolo sull’Asia.
    “Il Milione” funse da ispirazione per generazioni di viaggiatori europei (non ultimo Cristoforo Colombo) e fornì spunti e materiali alla cartografia occidentale (in primis al Mappamondo di Fra Mauro).

    Per non parlare poi dell’arte in estremo Oriente che si sviluppo in paesi come la Cina o il Giappone , in Thailandia o in Cambogia o Vietnam …
    Quello che piu’ mi affascina però è il periodo del “giapponismo” (in francese “japonisme” e “japonaiserie” ) che rappresenta l’influenza che l’arte giapponese ebbe sull’Occidente, in particolare sugli artisti francesi.
    Fu l’artista Philippe Burty, abile incisore, che nel 1873 coniò il termine Japonisme (Giapponismo in lingua italiana) che stava ad indicare l’attrazione e l’interesse dei pittori francesi verso l’arte del Sol Levante.

    Questa passione per l’arte giapponese non avrebbe avuto luogo se le stampe giapponesi non fossero sopraggiunte in Olanda tramite la Compagnia delle Indie, e poi diffuse in tutta Europa.
    Queste stampe ritraevano scene di vita quotidiana ed erano impostate sulla rappresentazione bidimensionale, e quindi sul colore piatto e l’assenza di chiaroscuri, ma dinamica; la linea curva, semplice e sinuosa suggeriva l’idea del movimento. Altre caratteristiche sono il taglio fotografico e la prospettiva essenziale. Interessante è l’attenzione dedicata all’elemento dell’acqua e allo studio della figura femminile.
    Durante l’era Kaei (1848-1854), molte navi mercantili approdarono in Giappone.
    In seguito alla Restaurazione Meiji del 1868, il Giappone pose fine ad un lungo periodo di isolamento, aprendosi alle importazioni dall’Occidente, tra cui la fotografia ed alcune tecniche per la stampa, mentre molte stampe ukiyo-e arrivarono in Europa e in America, diventando subito molto conosciute.

    Il giapponismo cominciò improvvisamente tra il 1850 e il 1870, con la moda di collezionare opere d’arte giapponesi, in particolar modo le stampe ukiyo-e.
    I collezionisti, gli scrittori e i critici d’arte europei intrapresero molti viaggi in Giappone, soprattutto nei due decenni successivi al 1870; per questo motivo, vennero pubblicati molti articoli sull’estetica giapponese, e vi fu un incremento nella distribuzione di stampe in Europa e, soprattutto in Francia.
    I più celebri tra questi viaggiatori furono l’economista liberista Enrico Cernuschi, che avrebbe poi fondato a Parigi il museo omonimo, il critico Theodore Duret e il collezionista britannico William Anderson (la cui collezione di stampe giapponesi è ora al British Museum), che visse per alcuni anni ad Edo, insegnando medicina. L’Esposizione Universale (1878) di Parigi presentò molte opere d’arte giapponesi.
    Tra gli artisti giapponesi che ebbero una grande influenza, possiamo citare Utamaro e Hokusai ( celebre la sua xilografia “grande onda”).

    Gli artisti europei che vennero influenzati dall’arte giapponese furono: Van Gogh, Monet, Manet, Degas, Renoir, Pissarro, Klimt, Charles-Louis Houdard e molti altri.
    Gli ukiyo-e ( letteralmente, “immagini del mondo fluttuante”), con le loro linee curve, i motivi delle superfici colorate e i vuoti, l’asimmetria della composizione e la bidimensionalità, ispirarono anche l’Art Nouveau. La linearità e i motivi curvi divennero dei cliché grafici, influenzando artisti di tutto il mondo.
    Molti dei dipinti di Van Gogh imitano lo stile e i temi dell’ukiyo-e.
    Ad esempio Ritratto di père Tanguy, il proprietario di un negozio di articoli per pittori e artisti, mostra sei ukiyo-e diversi sullo sfondo. Dipinse inoltre La Cortigiana nel 1887, dopo aver trovato un ukiyo-e di Kesai Eisen sulla copertina del giornale Paris Illustré, nel 1886. Nello stesso tempo, collezionava stampe giapponesi ad Anversa.

    Van Gogh aveva da poco tempo lasciato Neunen, cittadina di campagna nel Brabante settentrionale, e si era trasferito ad Anversa, città dotata di uno dei porti più trafficati d’Europa, nel quale ogni giorno arrivavano carichi di merce da ogni angolo del globo.
    Van Gogh si imbatteva spesso in varie stampe giapponesi che avevano preso ad arrivare in continuazione anche al porto di Anversa per poi essere vendute nei negozi della città. Questo sulla scia d’una moda partita in Francia una ventina d’anni prima, ma anche grazie all’impulso dell’Esposizione Universale del 1885, che si era tenuta proprio ad Anversa, e che aveva contribuito a far conoscere anche in Belgio l’arte nipponica.

    In breve tempo, Van Gogh riuscì a crearsi una collezione personale di stampe giapponesi (le japonaiserie, come le chiamava lui), favorito dal fatto che queste opere fossero in commercio a prezzi decisamente modici: anche un artista che, come lui, non navigava certo nell’oro, poteva permettersele.
    La passione per le stampe giapponesi crebbe quando Vincent si trasferì, nel 1886, a Parigi, dove si trovavano praticamente ovunque e dove, come detto, la moda per queste opere aveva già da tempo trovato terreno fertile per la propria diffusione. Nella capitale francese, Vincent diventò assiduo frequentatore della galleria di Siegfried Bing (1838 – 1905), un mercante franco-tedesco che aveva aperto la propria attività in rue de Provence. La galleria di Bing era stata determinante per far conoscere in Francia l’arte dell’Estremo Oriente. Lo stesso mercante aveva compiuto, nel 1880, un viaggio in Giappone, e nel 1888 avrebbe fondato un giornale, Le Japon artistique, per diffondere ulteriormente le novità dell’arte giapponese. All’artista venne anche l’idea di organizzare una piccola mostra di stampe giapponesi nei locali del Café du Tambourin: fu, tuttavia, un completo disastro sotto il profilo commerciale, come lo stesso Vincent riconobbe in una lettera inviata a Theo, il 15 luglio del 1888, da Arles. Tuttavia, nella lettera, l’artista chiedeva al fratello di non chiudere i rapporti con Bing: se era vero che l’artista avesse speso molto per allestire la propria collezione, spesso dovendo anche pagare in ritardo il mercante, i benefici derivati erano di notevole importanza perché, scriveva Vincent, la possibilità di frequentare la galleria e di collezionare stampe gli aveva fatto conoscere l’arte giapponese. Tra le varie stampe che Van Gogh aveva acquistato, figurava il celebre Ponte di Shin-Ōhashi sotto la pioggia, opera di Utagawa Hiroshige (1797 – 1858).

    Si trattava di stampe su carta realizzate con l’uso di matrici in legno, che rappresentavano soprattutto paesaggi o scene di vita quotidiana, e che utilizzavano uno stile fondato sull’uso di prospettive spesso ardite e di punti di vista insoliti, sulla concentrazione dell’azione principale in un punto preciso del dipinto (tipicamente in primo piano), sull’assenza di simmetria, sulle vedute a volo d’uccello. I colori venivano stesi con campiture uniformi su aree rigidamente delimitate da contorni scuri, quasi del tutto prive di sfumature e di effetti chiaroscurali. Sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel Ponte di Hiroshige. I particolari principali dell’opera si concentrano tutti verso il basso: il ponte di legno, i personaggi che occupano il centro della composizione e che sembrano quasi correre, riparandosi dall’acqua (da notare come non proiettino ombre sul suolo: è tipico degli ukiyo-e), l’imbarcazione che sopraggiunge da sinistra. Anche le diverse tonalità di blu che l’artista utilizza per descrivere fiume e cielo sono rigidamente distinte (solo in prossimità dei bordi vediamo sfumature), mentre la pioggia è suggerita semplicemente da linee nere che solcano tutta la xilografia in verticale (il rapporto tra linee verticali e linee orizzontali è fondamentale negli ukiyo-e in quanto detta la struttura su cui vengono organizzate le scene). Nel 1887, Van Gogh realizzò, a partire dal Ponte di Hiroshige, un dipinto oggi conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam ( l’ho visto quando fui in Olanda nel 1998 )
    L’artista olandese decise di conservare il senso del dinamismo di Hiroshighe (raggiunto in quest’opera soprattutto per mezzo del punto di vista laterale), reinterpretandolo però secondo la propria sensibilità: osserviamo sulla superficie del fiume rapidi tratti di pennello, tipici dello stile di Van Gogh, che permettono di accostare varie tonalità di blu e di verde al fine di suggerire il movimento dell’acqua. Le pennellate si fanno più larghe vicino alle pile del ponte contro le quali si infrangono i flutti, e per le stesse pile vengono utilizzati toni diversi di marrone. Inoltre, il pittore arricchì la cornice con finte scritture, che non hanno alcun significato letterale perché Van Gogh non conosceva il giapponese, ma contribuiscono a dare un tono esotico e orientaleggiante alla composizione.

    Il fatto che Van Gogh non mirasse a creare copie fedeli degli originali giapponesi traspare anche dal Susino in fiore, un’altra japonaiserie del 1887 realizzata a partire da un’ulteriore stampa di Hiroshige, il Giardino di Kameido, del 1857. Le delicate tonalità di rosa che Hiroshige aveva utilizzato per il cielo vengono trasformate in un rosso denso e forte da Van Gogh, che utilizzò colori decisamente più vividi rispetto a quelli delle stampe giapponesi, benché si dimostrasse incline a conservare il modo di stendere le campiture, uniforme e racchiuso da un contorno nero: e giova ricordare come il ricorso al nero e l’utilizzo del contorno, pratiche che gli impressionisti avevano di fatto abolito, erano state reintrodotte da Van Gogh, che faceva uso del nero e del contorno con l’obiettivo di creare effetti di contrasto tra gli elementi delle sue composizioni.

    Ma perchè Van Gogh era così fortemente attratto dall’arte giapponese?
    Sono soprattutto tre i motivi che rendono le stampe di Hiroshige e altri interessantissime agli occhi di Van Gogh: la prospettiva, la semplicità e i colori.
    L’arte olandese prediligeva il punto di vista centrale: per Vincent, quegli scorci così arditi e quei punti di vista così insoliti rappresentavano impressionanti novità. L’acquisto, da parte di Van Gogh, delle stampe giapponesi e, in certi casi, la reinterpretazione (come per il Ponte e il Susino di cui sopra) erano attività finalizzate allo studio di nuovi punti di vista da applicare ai propri paesaggi.
    Anche il modo di stendere i colori attraverso masse uniformi racchiuse da contorni scuri, così nuovo e diverso rispetto alle campiture che l’artista era abituato a vedere nelle opere dei suoi conterranei, avrebbe iniziato ben presto a entrare anche nelle sue opere d’arte.

    L’arte giapponese non era però sufficiente a conferire all’arte di Van Gogh quella luminosità e quei colori accesi tanto agognati: così, nel 1888 Vincent decise di lasciare Parigi per trasferirsi nel sud della Francia, stabilendosi ad Arles, splendida cittadina di antiche origini vicina alle paludi della Camargue. La meta non fu scelta a caso: Van Gogh trovava che ci fosse un solido legame tra il meridione francese (le Midi, come lo chiamano i francofoni) e il paese del Sol Levante. Le ragioni del trasferimento furono affidate, come sempre, ai suoi carteggi: tra le più significative è possibile annoverare quella scritta il 18 marzo 1888, da Arles, al pittore Émile Bernard. Nella lettera, Van Gogh diceva che Arles era il posto ideale per “gli artisti che amano il sole e il colore”, e che le atmosfere della cittadina gli ricordavano proprio quelle del Giappone per la loro limpidezza e per gli splendidi colori dei paesaggi: “i corsi d’acqua creano bellissime macchie blu e smeraldo nel paesaggio, come si vede nelle stampe giapponesi, i tramonti d’un arancio pallido fanno sembrare azzurri i campi, e il sole è d’un giallo splendido”. E tutto ciò, osservava Vincent, solo nel mese di marzo: l’estate avrebbe riservato ancora più sorprese. C’è un dipinto che sembra dar forma a tutti questi pensieri: il Seminatore, un’opera del 1888 oggi conservata al Kröller-Müller Museum di Otterlo, nei Paesi Bassi.
    Il dipinto, che trovava un illustre precedente nell’arte di Jean-François Millet, ci propone la figura di un contadino intento nella semina del grano, in pieno giugno, mentre il sole scompare sotto l’orizzonte inondando di luce gialla il cielo e, come l’artista scriveva a Bernard tre mesi prima, facendo apparire azzurro il campo. Il sapiente utilizzo dei colori complementari (ovvero il colore primario unito al colore secondario risultante dalla mescolanza degli altri due primari), in questo caso il blu e l’arancione, fa sì che questi ultimi si esaltino a vicenda conferendo una maggior luminosità al dipinto.
    Il quadro di Van Gogh ci riporta a una dimensione di armonia con gli elementi, in cui il lavoro del seminatore è sì duro e faticoso, ma rispetta i ritmi della natura, e in cui la presenza umana sembra perdersi nell’infuocata luce di un tramonto d’inizio estate nella Francia del sud. Un paesaggio in cui l’unico suono che si sente è quello delle fronde mosse dal maestrale: lo stesso che poteva avvertire Vincent dipingendo il quadro, studiato direttamente sul posto, e proprio sotto al vento di mistral, come scriveva a Bernard il 19 giugno.
    Van Gogh aveva sognato il Giappone, e forse riuscì a trovarlo in Camargue. Tanto da scrivere al fratello: “mi sento come se fossi in Giappone”, oppure “qui non ho bisogno di stampe giapponesi, perché ogni giorno mi dico che qui io sono in Giappone”.

    Per quanto riguarda poi l’aspetto musicale, grazie all’influenza di questa corrente, Claude Debussy compose il suo poema sinfonico più conosciuto, La Mer: infatti il compositore francese si ispirò alla Grande onda, come citato all’inizio.

    E non sarebbe tutto …ma mi fermo …

    Alessandro

    • Veronica

      Ciao Alessandro,

      piacere di rileggere un tuo commento!

      Ti chiedo scusa per la risposta tardiva.

      Sono entusiasta per quello che hai scritto: un bellissimo testo, ricco di rimandi storici e artistici che denotano una passione per l’argomento.

      Potrebbe diventare un bel contributo da condividere con chi segue il blog. . . Cosa ne pensi?

      Grazie, buona giornata!

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